Quel certo non so che…

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A molti sarà capitato, almeno una volta nella vita, di passare una piacevole serata in compagnia di amici e/o familiari degustando un buon vino, ma risentendo dopo un po’ (se non il giorno dopo) di una sensazione difficile da spiegare, una sorta di cerchio alla testa che forse sarebbe meglio definire … quel certo non so che, capace di renderci ahimè poco reattivi e presenti durante la conversazione, che solitamente i commensali (al primo accenno di lamentela), giustificano correlando il malessere al consumo di un vino ricco di solfiti.

Per chi non è a conoscenza dei concetti legati al processo di vinificazione, ricordiamo che il ricorso alla anidride solforosa (SO2 detta anche diossido di zolfo o biossido di zolfo) è una pratica essenziale nella vinificazione e nella conservazione del vino, per il quale ancora oggi non si è riusciti a trovare un adeguato sostituto.

E lo sapevano bene gli olandesi, ai quali si deve la scoperta della stabilizzazione dei vini bianchi (che prima potevano essere trasportati solo nelle stagioni fredde), mediante la bruciatura di uno stoppino contenente zolfo all’interno di una botte di media capacità. Proprio con tale pratica (che venne ben presto utilizzata ovunque), infatti, si ottenne in maniera primordiale la formazione di anidride solforosa che una volta attaccatasi alle pareti delle botti risultò (per l’epoca) un ottimo conservante per il vino, finalmente capace di affrontare lunghe traversate.

Ancora oggi come all’ora i vini che presentano un quantitativo di anidride solforosa più alto sono generalmente i vini bianchi, soprattutto nel caso di vini più delicati o dei passiti, nei quali l’impiego di questa sostanza viene utilizzata a protezione del colore o per evitare eventuali rifermentazioni, la cui presenza in eccesso però, all’olfatto di un intenditore esperto risulta assolutamente inconfondibile.

C’è da dire che la maggior parte dell’anidride solforosa (SO2) presente nel mosto e nei vini è aggiunta nel corso delle varie fasi vitivinicole risultando così, durante tutto il percorso lavorativo in parte legato alle molecole di acqua ed in parte sotto forma libera come bisolfito (HSO3). L’anidride solforosa che viene aggiunta al mosto, ne favorisce la fermentazione alcolica andando a svolgere in tale fase una azione antisettica selettiva inibente lo sviluppo di batteri e lieviti dannosi a favore di quelli sani (utili a completare la fase chimica), mentre ad esempio durante la fase di affinamento (o maturazione), la stessa SO2 contribuisce con una azione antimicrobica alla conservazione delle caratteristiche organolettiche del vino, impedendo in tal modo la formazione di batteri acetici (nocivi) e permettendo di ottenere prodotti più sani e serbevoli.

Proprio per i molteplici benefici che si possono addurre a favore dell’anidride solforosa (SO2) si comprende bene perché in passato si sia un po’ ecceduto nell’uso di tale additivo, tanto da portare in alcuni casi alla creazione di prodotti che, il giorno dopo il consumo, venivano ricordati per il cerchio alla testa ed in alcuni casi anche per la presenza di disturbi intestinali nei malcapitati consumatori.

È importante sottolineare, però, che i solfiti durante le pratiche vitivinicole non vengono aggiunti solo artificialmente (cioè dall’uomo), ma una parte di essi li si ottiene per produzione naturale durante la fermentazione alcolica, nel passaggio cioè dal “succo d’uva” al vino, ad opera di alcune tipologie di lieviti.

Quanto detto ricorda il caso di un imprenditore tedesco che agli inizi degli anni ’60 aveva immesso in commercio un vino dichiarato privo di anidride solforosa (poiché mai stata aggiunta durante la produzione), ma che denunciato e processato (a seguito di un controllo da parte delle autorità tedesche che avevano al contrario rilevato quantità sufficienti di SO2 nella bevanda) continuando a proclamare la sua innocenza, venne infine assolto a seguito di ulteriori accertamenti che individuarono come responsabili della produzione di SO2, sia i lieviti agenti sulla fermentazione (i Saccaromyces cervisiae), che i trattamenti con anticrittogamici a base di ditiocarbammati.

Una produzione biologica spontanea di SO2 viene pertanto generata da tutti gli agenti della fermentazione (non essendo stati riscontrati ceppi che non presentino tale capacità o se ci sono risultano molto rari), tanto da indicare l’anidride solforosa come un componente naturale dei vini. Inevitabilmente e spontaneamente presente in essi, può essere quindi rilevata in quantità molto variabili che spesso non risultano sufficienti a garantire né la conservazione del gusto e del sapore, né tanto meno l’eventuale proliferazione di batteri dannosi nei vini, e questa risulta la ragione per cui in alcuni casi si ha la necessità (come accennato precedentemente) di aggiungere SO2 già all’arrivo delle uve in cantina. Mentre in altri casi l’aggiunta di SO2 necessita di attenzione perché può produrre un effetto di accumulo.

Dovrebbero stare attenti del resto anche i soggetti fortemente suscettibili ai solfiti, che per evitare il consumo di questi additivi preferiscono al vino convenzionale quello biologico ritenendo che sia totalmente privo di SO2 quando invece in esso la presenza sussiste. La quantità massima di solfito in un vino biologico, in ogni caso, è certamente inferiori a quella prevista per il vino convenzionale ed è pari a 100mg/l per i vini rossi e 150 mg/l per i vini bianchi e rosati (con la possibilità di aumentare in tutti i casi di 30 mg/l se il vino ha più di 2 grammi di zucchero residuo) come indicato dalla recente normativa sulla produzione di prodotti vitivinicoli biologici, il Regolamento CE n. 203 del 2012.

La legislazione Europea in tema di uso dei solfiti negli alimenti, compreso il vino, considera queste sostanze degli “allergeni” (Reg. UE n. 1169/2011) dicitura che in realtà viene data solo per semplificare la classificazione normativa, come dichiarato ufficialmente dall’EUFIC (European Food Information Council), infatti, i solfiti o diossido di zolfo (secondo quanto riportato da tale organizzazione scientifica di informazione sulla sicurezza e qualità alimentare oltre che sulla salute e nutrizione) non determinano reazioni immuni mediante anticorpi IgE e pertanto non causano possibili shock anafilattici o altri effetti gravi tipici degli allergeni. Studi sulla tossicità acuta e cronica dell’SO2 hanno in effetti evidenziato che solo il consumo di dosi particolarmente elevate possono causare sintomi rilevanti in soggetti sani, mentre i normali effetti collaterali consistono in mal di testa, orticaria, rinite, distruzione della vit. B1 (o tiamina), a differenza però di ciò che può scatenarsi negli individui asmatici, per i quali l’ingestione di una tale sostanza può dare manifestazioni più acute, oltre che il fiato corto, il respiro affannoso e la tosse.

Per evitare problemi ai consumatori la legislazione ha posto quindi dei limiti quantitativi massimi di solfiti nei vini che secondo quanto stabilito dall’Unione Europea con il Reg. CE n. 606/2009, non devono superare i 150 mg/l per i vini rossi e i 200 mg/l per i vini bianchi e rosati (con le dovute eccezioni), oltre all’obbligo di riportare in etichetta la dicitura “contiene solfiti” (oppure anidride solforosa o diossido di zolfo) nel caso in cui ci si trovi in presenza di un vino con un contenuto di SO2 superiore ai 10mg/l. Rimane ancora facoltativo invece apporre il logo specifico con la dicitura “Allergy Information SO2”.

Tuttavia, non tutti gli autori concordano sulle evidenze scientifiche che mettono in relazione la presenza di anidride solforosa all’insorgenza dell’emicrania, adducendo come contro risposta, che se ciò è vero, ci debba anche essere una correlazione tra l’emicrania ed il consumo di prodotti come gli insaccati, i formaggi e più in generale di tutti quegli alimenti e quei prodotti alimentari che sono fermentati.

L’anidride solforosa ed i suoi derivati difatti vengono utilizzati dall’industria alimentare come degli additivi (E220) per le loro proprietà antimicrobiche, antifungine, antiossidanti, oltre ad agire contro l’imbrunimento enzimatico ed ossidativo, ed è proprio per questi suoi molteplici benefici che nelle imprese agroalimentari viene impiegata in numerosi prodotti come nella carne, nel pesce, nei crostacei, nei molluschi, nei formaggi, nella frutta secca, nelle conserve di pomodoro e nelle bevande.

Ed allora da cosa può eventualmente dipendere la tanto temuta emicrania e non solo?

Una spiegazione ci sarebbe e potrebbe ricondurre alla produzione delle ammine biogene (AB) ottenute da processi biologici ad opera di batteri lattici presenti nel mosto e nel vino, in grado di produrre appunto composti che esercitano effetti negativi sulla salute dell’uomo tra i quali proprio le ammine biogene, ma anche l’etilcarbammato (o uretano, ossia l’etil estere dell’acido carbammico dotato di forte attività cancerogena).

Le ammine biogene sono composti azotati derivanti (mediante decarbossilazione) da specifici amminoacidi che possono trovarsi in molteplici alimenti quali prodotti ittici (per la presenza di istamina), ortaggi (pomodori, spinaci, melanzane), formaggi (soprattutto erborinati quali il roquefort, camembert, ma anche altri come lo svizzero, l’emmental e il parmigiano) e prodotti carnei (salumi e prosciutto) con concentrazioni che risultano anche superiori (e che comunque non dovrebbero mai superare valori compresi tra 750 e 900 mg/Kg di ammine biogene totali) alle quantità riscontrate nel vino.

Essendo queste delle sostanze biologicamente attive nell’organismo umano ed essendo indispensabili per importanti funzioni fisiologiche (come l’istamina che possiede numerose proprietà regolatrici a livello del sistema cardiovascolare, della muscolatura liscia, delle fibre nervose sensoriali, ecc), nella maggior parte dei casi tendono a non causare effetti negativi. Tuttavia, se ingerite in concentrazione troppo elevate o nel caso in cui l’azione detossificante dell’organismo (epatica ed intestinale) venga inibita per cause genotipiche che rendono un soggetto più suscettibile, ma anche per la presenza di etanolo (capace di aumentare la permeabilità intestinale) o farmaci, possono manifestarsi vari effetti tossici e reazioni allergiche, legate naturalmente alla tipologia di ammina biogena entrata in gioco.

Le ammine biogene dotate di maggiore tossicità nell’uomo che si riscontrano nel vino sono:

– l’istamina, capace di indurre nell’uomo mal di testa, eruzione cutanee, nausea, vomito, crampi addominali, crisi respiratorie, ecc;

– la tiramina, capace di indurre mal di testa, salivazione, problemi respiratori, crisi ipertensive (cheese reaction), ecc;

– la putrescina, la β-feniletilamina e la cadaverina che hanno la capacità di potenziare gli effetti delle prime due.

Il livello delle ammine biogene può variare nel vino a causa di diversi fattori rappresentati dai batteri lattici (LAB) con capacità decarbossilasi e nelle fasi iniziali di lavorazione dalla quantità di amminoacidi precursori, quest’ultima influenzata a sua volta dalla composizione del mosto e dal tipo di vinificazione, che comprende tra vari parametri la presenza di anidride solforosa ed il pH che andranno ad influenzare la tipologia e l’entità delle popolazioni microbiche e le loro attività metaboliche.  Da alcuni studi si è evidenziato ad esempio che nelle fasi di produzione, in presenza di un pH alto, di un minor tenore di SO2, di un grado alcolico basso e temperature più alte di conservazione di un vino, si ha una maggiore possibilità che si formino ammine biogene.

Certo è che se durante il trascorrere di una piacevole serata, un soggetto suscettibile a tali sostanze tende a consumare vino associato ad alimenti contenenti anch’essi tali ammine, per un effetto sommatoria si potrebbe avere una possibilità in più che quel certo non so che… possa manifestarsi! Effettivamente, nonostante la presenza delle ammine biogene sia un fenomeno ormai diffuso, non esiste tuttora una legislazione che tuteli i consumatori a riguardo né tantomeno che fissi dei valori limite per queste sostanze, anche se alcuni Paesi europei hanno deciso di raccomandare ad esempio per l’istamina nei vini (che in Italia è normata anche in merito ai prodotti ittici), dei valori massimi compresi tra i 2 e i 10 mg/l a seconda dei Paesi (Germania 2mg/l, Francia 8 mg/l,  Svizzera ed Austria 10mg/l).

Inoltre, l’importanza che questo tipo di problematica sta raggiungendo ha portato nel 2011 l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV) ad adottare un “Codice delle corrette pratiche vitivinicole atte a limitare al massimo la presenza delle ammine biogene nei vini”, in grado di stabilire le corrette misure da applicare nei vigneti e nelle cantine, contribuendo così alla riduzione dei rischi legati alla presenza di ammine biogene nei prodotti finali.

Si segnala che alcune strategie utili al controllo delle ammine biogene sono certamente basate, all’interno dei processi produttivi vitivinicoli, sull’utilizzo di batteri malo lattici (LAB) selezionati, capaci cioè di essere bassi produttori di tali sostanze. Come del resto, a fine fermentazione malo lattica (FML) si può agire con una bassa temperatura e utilizzando un antisettico, quale può essere ad esempio l’ SO2 che va a ridurre proprio la flora batterica capace di sviluppare le ammine biogene.

Quanto detto però, ci porta a fare una considerazione su quei vini che oggi vanno di gran moda quali i vini biodinamici o quelli definiti “naturali”, nella produzione dei quali infatti secondo disciplinari rigidi e non normati ad oggi dalla legislazione europea,  non solo non è permesso utilizzare sostanze selezionate, bensì solo sostanze che si producono spontaneamente all’interno del processo produttivo, ma si ha anche l’obbligo di utilizzare valori molto più bassi (rispetto al vino convenzionale e al vino biologico)di SO2, che invece abbiamo visto essere utile proprio nel contenimento di microrganismi produttori di ammine biogene.

Questo non è poi tanto differente da ciò che può accade nelle produzioni vitivinicole casalinghe, il che ci porta a dire: nel consumo di queste tipologie di prodotti, per ciò che riguarda le ammini biogene, forse è bene porre un’attenzione in più!

© Produzione riservata

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Dr.ssa Sabina Rubini
Biologa ed Esperta in Sicurezza degli Alimenti
Consulente Agroalimentare
Co-founder ISQAlimenti.it