Anisakis & Co.

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Viaggio nel mondo delle zoonosi parassitarie da consumo di pesce crudo o poco cotto

Il pesce e i suoi derivati svolgono un compito sostanziale in merito alla soddisfazione delle necessità nutrizionali di molti Paesi. Ciò si può riscontrare dai maggiori consumi mondiali: l’impiego alimentare di pesce procapite è passato da 9,9 kg nel 1960 a circa 19 kg nel 2010.

Tale incremento è sicuramente dovuto all’aumento della popolazione, al maggiore benessere economico, al miglioramento della commercializzazione e alla diffusione degli aspetti salutistici derivanti dal consumo di pesce (presenza di acidi grassi insaturi come gli Omega-3, di fosfolipidi quali le lecitine, di importanti sali minerali – iodio, fosforo, ecc. – presenza di vitamine liposolubili come la A e la D) oltre che alla facile digeribilità e allo scarso apporto di calorie a seguito dei pochi lipidi contenuti (eccetto per alcune specie definite “grasse”).

Grazie all’incessante globalizzazione, alla possibilità di avvicinarsi a culture molto lontane attraverso internet e ai nuovi trend alimentari si stanno sempre più diffondendo nuovi cibi (es. molta frutta e semi esotici e del centro America fino a qualche anno fa quasi sconosciuti come il mangostano, il dragonfruit, il guava, le bacche di goji, la quinoa, ecc.), ma soprattutto si stanno propagando dei nuovi modi di preparazione degli alimenti, tra questi vi è sicuramente l’estensione delle tecniche produttive e del consumo di pesci crudi (sushi, sashimi, ecc.), semi cotti o trattati in modo spesso inadeguato ai fini dei rischi parassitologici.

Quali sono gli alimenti a base di pesce crudo?

Le principali preparazioni alimentari a base di pesce crudo o poco cotto sono il sushi e il sashimi (specialità culinarie di origine giapponese), i pesci affumicati, la tartara ed il pesce marinato.

Dietro il consumo di pesce crudo, quale il sushi e il sashimi, si celano tanti significati e valori dei principali piatti simbolo della cucina giapponese, infatti, questa ha un particolare rapporto con la trasformazione del cibo in pietanza la quale spesso si limita alla sola azione di taglio e di decorazione conservando la “naturalità” della materia prima. In altre parole, nella cultura giapponese, spesso il cibo viene servito “vivo”.

Il sushi (letteralmente “acido”) è costituito da pesce crudo e da altri ingredienti (verdure, alghe, uova, ecc.) sempre amalgamati dal riso. Esistono differenti varietà di sushi (nigiri, uramaki, makizushi, hosomaki, ecc.) ognuna delle quali è caratterizzata da ingredienti, lavorazione e presentazione diversa.

Spesso il sushi viene decorato con differenti vegetali (il più utilizzato è lo zenzero (in giapponese “gari”) che viene servito in sottili fettine da assaporare per lavare la cavità orale tra due disuguali tipi di sushi.

Il sashimi (letteralmente “infilzato”) di norma è il piatto con cui in Giappone s’inizia il pranzo e/o la cena. Esso è composto di un solo tipo di pesce crudo (qualche volta anche da differenti specie compresi i molluschi) che vengono serviti con delle peculiari salse (wasabi – preparato con moderato potere antibatterico, salsa ponzu, aceto di riso, salsa di soia, ecc.). Quindi nel sashimi non c’è il riso proprio questa caratteristica differenzia il sashimi dal sushi (sempre composto da pesce crudo ed altri ingredienti associati al riso).

I pesci più utilizzati per preparare un buon piatto a base di sashimi sono il tonno, il pesce spada, il salmone, il pesce palla (“fugu”), il merluzzo, i gamberetti e il polpo. Questi ultimi di norma vengono sbollentati mentre gli altri pesci vengono lavorati (eviscerati, mondati e sfilettati) e serviti crudi e sempre privati della testa, della coda, delle pinne, delle squame, della pelle e delle lische.

Il sushi e sashimi si sono diffusi in occidente dal 1953 quando il principe giapponese Akihito lo fece servire durante un pranzo avvenuto presso l’ambasciata nipponica di Washington nel quale vi erano ospitati degli ufficiali americani.

In Giappone per diventare chef di sushi e sashimi si segue un difficile percorso teorico-pratico della durata minima di due anni durante il quale si impara la tassonomia ittica, come scegliere le materie prime di qualità, come tagliare il pesce, come effettuare particolari lavorazioni (es. il “massaggio” del polpo prima di somministrarlo), come cuocere perfettamente il riso e come preparare fantasiose decorazioni.

Sicuramente una delle tappe fondamentali di questi corsi è rappresentata dalle tecniche di trattamento del pesce per garantirne la salubrità igienico-sanitaria (es. l’assenza di parassiti) e dalle tecniche di taglio del pesce palla (notoriamente velenoso perché nelle interiora contiene la tetradotossina).

Nell’esame finale per diventare “sushi chef” abilitato alla preparazione del pesce Palla (in Italia vietato) agli esaminati viene chiesto di mangiare il sashimi, contenente parti di pesce Palla, da loro preparato.
Il sushi ed il sashimi pur erroneamente considerati dei piatti semplici in realtà sono dei cibi complessi, ricchi di fascino e di seduzione legati alle antiche tradizioni giapponesi non a caso pur essendo tra i piatti gastro-culturali più gustati al mondo spesso sono i meno conosciuti.

Il pesce crudo in realtà non viene mangiato solo in Giappone infatti lo si consuma da remore tempo anche in altre culture basti pensare ai Tartari (antico popolo dell’Europa orientale e della Siberia) che con le loro invasioni hanno lasciato in eredità la cosiddetta preparazione culinaria definita “tartare” la quale attualmente può essere di carne o di pesce. Gli antichi Tartari durante i loro percorsi usavano mettere la carne cruda tra il dorso dei cavalli e la sella per renderla morbida e finemente spezzettata. Ovviamente la tartare moderna non la si ottiene attraverso questa ancestrale, e poco igienica, metodica e soprattutto risulta essere molto più sofisticata. Le attuali tartare possono essere anche di pesce crudo (tonno, pesce spada, ricciola, merluzzo, salmone, ecc.) tagliato a cubetti, più o meno grandi, e condite con olio, succo di limone, spezie, erbe aromatiche, sale ed altro a seconda della ricetta e dei gusti personali.

Un’altra pietanza culinaria che comporta il consumo di pesce crudo è la marinatura. Questa metodica in realtà è usata anche per preparare il pesce da cucinare alla griglia e al forno (prodotti marinati cotti) ovviamente con le dovute differenziazioni in merito alle materie prime usate e alle loro quantità.

Per quanto concerne la marinatura del pesce da consumare crudo (es. alici, calamari, tonno, pesce spada) generalmente la si ottiene attraverso l’emulsione di olio extravergine di oliva, di aceto bianco, di succo di limone, con pepe nero, trito di prezzemolo, ecc. Ovviamente la ricetta cambia a seconda delle tradizioni locali e dei personali gusti.

Il pesce sviscerato e sfilettato va lasciato almeno qualche ora immerso in questa emulsione (salsa a base di olio, sale, aceto e di limone). La marinatura serve a mantenere il pesce idratato, tenero e ad aromatizzarlo.

Anche il carpaccio (es. di polpo, di tonno, di pesce spada) è considerato uno dei piatti tipici a base di pesce crudo. Questo piatto consiste nell’ottenere delle fettine sottili di pesce o di molluschi e di condirle con semplici salse che possono variare a seconda della ricetta.

Altra metodica molto utilizzata, non tanto per preparare e somministrare gli alimenti, quanto per prolungarne la loro conservazione è la salagione secca cioè l’affondamento dell’alimento nel sale senza l’aggiunta di acqua (in questo caso si avrebbe la cosiddetta salamoia). In genere l’alimento è messo a contatto con il sale grosso in quanto questo penetra lentamente nelle cellule dell’alimento sino ad arrivare agli strati più profondi. Invece il sale fino attraverserebbe velocemente gli strati superficiali del pesce, ma subito dopo formerebbe una sorta di limite oltre il quale non riuscirebbe più a penetrare quindi, salvo l’eventuale piccola pezzatura dell’alimento, il sale fino non riuscirebbe a spingersi negli strati profondi i quali non subirebbero gli effetti positivi della salatura.

Questo metodo di conservazione chimica naturale, basato sulle proprietà igroscopiche del sale (NaCl: cloruro di sodio), cioè di assorbire e quindi di eliminare dagli alimenti l’acqua in essi contenuta (soprattutto l’acqua libera, “water activity”, – Aw – cioè quella che, non essendo limitata da specifici legami con i componenti solubili dell’alimento, è impiegabile nel metabolismo dei batteri), rallenta moltissimi processi enzimatici, blocca la proliferazione batterica ed elimina per osmosi alcune specie di microrganismi quindi riduce drasticamente il deterioramento del cibo.Quest’antichissimo metodo di conservazione, come rovescio della medaglia, determina una perdita di alcuni nutrimenti (soprattutto di alcuni sali minerali e della vitamina C).

Per ultima, ma non per questo meno importante vi è la tecnica di affumicatura, antica tecnica di conservazione (ed una volta anche di cottura già usata dalla civiltà egizia e romana) degli alimenti a forte componente proteica (carne e soprattutto pesce: aringhe, salmone, storione, anguilla, sgombro, trota, ecc.). In realtà l’affumicatura in passato era una tecnica di conservazione degli alimenti (spesso abbinata all’essiccamento o alla salagione) mentre attualmente viene usata soprattutto come sistema per aromatizzare gli alimenti in quanto vi determina rilevanti modificazioni sensoriali (consistenza, odore, colore e sapore).

L’affumicatura (o affumicamento) consiste nel lasciare il pesce (spesso intero ed eviscerato oppure i suoi filetti) appeso o poggiato su griglie in una specifica camera (cella termostatata) nella quale viene introdotto il fumo generato in apposito forno (affumicatoio) attraverso una lenta combustione in carenza di ossigeno (quindi incompleta) di conseguenza non si ha sviluppo di fiamma, ma solo di fumi che lentamente, dopo essere filtrati (con il fine di trattenere la cenere e la fuliggine) impregnano l’alimento.

Di norma viene utilizzato truciolare (trucioli e segatura) di essenze legnose dure e prive di resine (quindi sono da evitare le conifere: pini, abeti, cipressi, ecc. e il legname trattato con collanti, con vernici, ammuffito e umido come imposto dal D.M. del 31.03.1965) in quanto queste per combustione possono generare composti tossici. Questo processo è definito “affumicatura a caldo” poiché si raggiunge la temperatura di circa 70-80°C che viene mantenuta per circa 3-8 ore a seconda della pezzatura e del tipo di pesce.

Le essenze legnose più utilizzate sono gli alberi da frutto, il castagno, la quercia, il noce e alcune volte anche legni meno duri come il pioppo, la vite (la risulta della potatura), il salice, ecc. e, in proporzioni differenti, anche piante aromatiche (rosmarino, ginepro, corbezzolo, lentischio, ecc.) per gli aromi che rilasciano.

Durante l’affumicatura si verifica, superficialmente all’alimento, una sorta di essicazione (evitando la coagulazione delle sostanze albuminoidi che possono formare una sorta di crosta) con azione battericida ma al contempo si può modulare la perdita di umidità dei sottostanti tessuti al fine di evitare l’irrancidimento (cioè l’alterazione dei lipidi) e la putrefazione (o meglio la degradazione e alterazione delle proteine).

Il fumo caldo che si sviluppa nell’affumicatura esercita un’interessante azione battericida verso le Enterobatteriacee, ma non nei confronti dei clostridi e di molte muffe.

Lo schema dell’affumicatura può essere genericamente schematizzato come segue: selezione della materia prima, eviscerazione ed eventuale filettatura, salagione (processo da cui dipende gran parte della shelf-life del prodotto finale e soprattutto la sua sicurezza igienico-sanitaria), asciugatura, affumicatura, eventuale toelettatura e/o trasformazione in fette e confezionamento.

Attualmente, soprattutto per i pesci si sta praticando “l’affumicatura a freddo” (specialmente per il salmone) consistente nel mantenere l’alimento a circa 16-26°C per 24-48 ore. Questa seconda tecnica (di tipo industriale) aumenta la capacità di conservazione e spesso comporta l’uso di specifici “aromatizzanti di affumicatura”.

Esiste anche un processo di affumicatura rapidissimo per il quale si utilizza il cosiddetto fumo liquido. Appare evidente che la sicurezza igienico-sanitaria dipende molto dal tipo di tecnologia utilizzata.

A parte le citate tecniche di conservazione e di preparazione del pesce ampiamente diffuse in Italia, in altri Paesi esistono preparazioni gastronomiche che potrebbero essere a rischio di parassitosi come il norvegese gravad lax (o gravlax), le aringhe vergini olandesi, il ceviche sudamericano (pesce crudo marinato con succo di limone, peperoncino e spezie), il tonno alla taitiana, il rollmpos dei Paesi Bassi, il Kung nam maprik della Tailandia (gamberi crudi marinati con limone, peperoncino e aglio), ecc. Quando si consumano questi piatti (es. durante viaggi o quando si frequentano i ristoranti tipici di questi Stati) bisognerebbe porre la dovuta attenzione.

Quali sono le principali malattie parassitarie che si possono prendere attraverso il consumo di pesce crudo?

Sicuramente tra le zoonosi parassitarie derivanti dal consumo di pesce crudo la più diffusa in Italia è l’Anisakiasi (o Anisakidosi). Questa malattia è causata dalle forme larvali (sottili, di colorazione bianco-crema e visibili a occhio nudo in quanto lunghe circa 1-3 cm, spesso arrotolate su se stesse) di nematodi ascaroidei del genere Anisakis (dal greco diverso e punta-arpione)che giungono accidentalmente all’uomo attraverso il consumo di pesci crudi, poco cotti o sottoposti a blandi trattamenti chimico-fisici non in grado di eliminare le larve.

In passato questa zoonosi era conosciuta quasi esclusivamente nei Paesi dell’Est Asiatico (soprattutto in Giappone), ma attualmente si sta diffondendo in molti Paesi dell’Occidente (Europa e America).

Nonostante anche in molte regioni della Cina e in altri stati limitrofi ci sia la radicata usanza di alimentarsi con pesce crudo in queste regioni i casi di Anisakiasi sono molto meno frequenti rispetto al Giappone. Alcuni studiosi ritengono che ciò sia dovuto all’azione larvicida di alcune specie vegetali (come gli estratti di rizomi, il basilico cinese, lo zenzero, ecc.) utilizzate come condimento/ingrediente invece altri ricercatori ipotizzano che ciò sia dovuto alla diversa tradizione alimentare infatti in Cina vi è l’abitudine di consumare il pesce crudo a fine pasto, a differenza del Giappone che invece di norma apre il banchetto, rendendo difficoltoso alle larve dell’Anisakis, a causa del chimo gastrico, l’accesso nella mucosa gastrica e intestinale.

In Italia il primo caso di Anisakis è stato rilevato a Bari nel 1996, da allora si denota un incremento annuo dei casi soprattutto a seguito del diffondersi dell’arte culinaria legata al Giappone (sushi e sashimi). In Italia il numero annuo reale dei casi di anisakidosi è sicuramente sottostimato.

Le specie di Anisakis più pericolose per l’uomo sono: l’Anisakis simplex simplex, l’Anisakis simplex C e la A. pegreffii.

Il ciclo biologico del genere Anisakis si sviluppa interamente nell’ecosistema marino quindi appare chiaro che l’uomo rappresenta un ospite accidentale e paratenico (poiché in esso il parassita non può svilupparsi e crescere sino alla forma adulta).

In genere gli ospiti definitivi sono i grandi mammiferi marini (cetacei quali i delfini, le balene, le foche, i trichechi e i leoni marini) e anche alcuni uccelli piscivori (pellicani, cormorani, ecc.). In questi animali si trovano le forme adulte le quali producono uova che vengono immesse nelle feci quindi arrivano agevolmente nell’ambiente esterno (acqua marina). Qui si sviluppano le larve (stadio larvale L1) che attraverso ospiti intermedi mutano maturando negli stadi L2 (in piccoli crostacei che compongono il Krill) e successivamente L3 (stadio infestante, presente nei molluschi cefalopodi e nei pesci).

In genere la larva L3 rimane nell’intestino dei pesci passando negli muscoli solo in specifici casi. In molti ipotizzano che questo spostamento si verifichi dopo la morte dell’animale quindi da questa ipotesi nasce la sana abitudine igienico-sanitaria di eviscerare il pesce subito dopo la pesca molto quindi prima della sua commercializzazione. Le larve L3 infestanti, sempre attraverso la catena alimentare, arrivano ai mammiferi marini e agli uccelli. Da questo momento il ciclo biologico si ripete.

L’Anisakis lo si può definire come “parassita cosmopolita” in quanto coinvolge molte specie ittiche diffuse in quasi tutte le acque marine. Alcune delle più diffuse sono il pesce Sciabola “Lepidopus caudatus” (infestato nel 100% degli esemplari pescati), il Suro “Tracurus tracurus” (95%), lo Sgombro “Scomber scombus” (70%), il Merluzzo “Merluccius merluccius” (40%), il Totano“Todarodes sagittatus” (circa 20%), l’Alice “Engraulis encrasicolus” (circa 15%), il Cefalo “Mugil cephalus” (circa 10%), la Sardina“Sardina pilchardus” e tanti altri con differenti valori come il Melù, il Tonno, il Lanzardo, l’Aringa, la Triglia, il Salmone, il Nasello, la Rana Pescatrice, il Pesce San Pietro, ecc.

Le larve L3, se migrate dall’apparato intestinale dei pesci alle carni, possono rimanere vitali per parecchi giorni anche se i pesci eviscerati vengono mantenuti a temperatura di refrigerazione (+4°C).

Alla famiglia Anisakis (Anisakidae) fanno parte anche i generi Pseudoterranova, Hysterothylacium (con larve che in genere non sopravvivono alla temperatura corporea umana) e Contracoecum, ma solo il primo genere sta determinando casi di zoonosi sempre a seguito del consumo di pesce crudo o poco cotto. Gli altri due generi invece hanno bassa rilevanza patologia nell’uomo se si escludono i pochi casi di malattia dovuti al genere Contracoecum.

Il Pseudoterranova decipiens, presente soprattutto in pesci pescati nell’Oceano Atlantico, ha larve di circa 2-4 cm, di maggiore spessore (anche 2 mm di diametro) rispetto a quelle Anisakis e di colore giallastro/rosso. Di conseguenza sono facilmente rilevabili anche attraverso l’esame visivo.

Le larve L3 dell’Anisakis, essendo resistenti ai succhi gastrici umani, riescono senza difficoltà a impiantarsi nella mucosa gastrica ed intestinale umana originando fenomeni infiammatori che possono essere suddivisi per lo più nelle seguenti forme:

– forma acuta dalla spesso tardiva diagnosi in quanto i sintomi (dolori addominali, vomito, nausea, diarrea) vengono confusi con altre patologie (gastrite, duodenite, appendicite, ecc.). In alcuni soggetti si verificano anche sintomi allergici (avvisaglie dermatologiche, eritema, edemi, ecc.).

– forma cronica con sintomi differenziati da soggetto a soggetto a seconda che si verifichi occlusione intestinale, versamento nel peritoneo, impedimento nell’evacuazione gastrica, formazione di ascessi gastro-enterici, ecc. Si possono verificare anche casi asintomatici. In genere dopo circa 30-45 giorni dall’infestazione, le larve L3 penetrate nella mucosa gastrica e/o intestinale tendono a regredire sino alla calcificazione che avviene dopo qualche mese.

– forma ectopica (extra gastro-intestinale) che si verifica quando le L3 perforano la parete gastrica e/o intestinale e migrano verso altri organi generando sintomi molto aspecifici a seconda della localizzazione delle larve.

Nell’ambito di tutte e tre le forme si possono avere manifestazioni allergiche sino a reazioni anafilattiche attivata da IgE.

La diagnosi è effettuata soprattutto attraverso esami endoscopici (gastro e duodeno scopia) e immunologici (RAST, ecc.). Generalmente le parassitosi da anisakis determinano un incremento di eosinofili.
La terapia richiede l’individuazione e la rimozione (per lo più di tipo endoscopico, ma anche chirurgico) delle larve. In alcuni casi ciò lo si può praticare utilizzando le piccole pinze manovrabili dall’esterno, attraverso l’uso di specifici monitor, di cui sono muniti alcuni gastroscopi (speciale rimozione endoscopica non invasiva). In talune persone si applica la terapia farmacologica a base di antielmintici (es. albendazolo 400 mg per tre giorni) e di cortisonici/antistaminici contro gli effetti infiammatori e allergici.

Oltre all’Anisakis consumando pesce crudo si può incorrere nel Diphyllobotrium latum che nell’uomo determina la zoonosi definita “Botriocefalosi” o “Difillobotriosi”.

Questo cestode (verme piatto) è caratterizzato da un complesso ciclo biologico che si effettua nelle acque dolci: dalle uova liberate nell’acqua si forma un embrione ciliato (oncosfera o coracidio) che fuoriesce da queste vivendo poche ore (circa 10-12 ore). Se questi coracidi vengono ingeriti da piccoli crostacei dulciacquicoli (copepodi che rappresentano il 1° ospite intermedio) si trasformano in procercoide. Quando i crostacei infestati sono ingeriti dal 2° ospite intermedio rappresentato da un predatore (pesce persico, luccio, salmone, trota, lucioperca, acerina, salmerino, bottatrice, ecc.) i procercoidi evolvono in plerocercoidi (o spargani) caratterizzati dall’aspetto vermiforme, dallo scolice retratto e dalle importanti dimensioni (circa 5-6 cm).

Gli ospiti definitivi, per lo più, sono animali piscivori (soprattutto canidi, felini, mustelidi e orsi) e accidentalmente l’uomo. I plerocercoidi, una volta giunti nell’ospite definitivo, estroflettono lo scolice in modo tale da poter saldamente aderire alla mucosa intestinale diventando cestodi adulti (di circa 4-10 metri) in grado di produrre uova. Il parassita adulto può vivere nell’intestino degli ospiti definitivi per parecchi anni (anche sino a 25 anni). Nell’uomo principalmente si fissa alla mucosa dell’ileo.

Appare ovvio che in questa parassitosi l’uomo può considerarsi un ospite definitivo accidentale.

La sintomatologia interessa soprattutto all’apparato gastro-intestinale (nausea, vomito, diarrea, crampi addominali, costipazione, ecc.), ma può portare anche a perdita di peso, astenia, affaticamento e carenza di Vitamina B12 con la manifestazione di anemia perniciosa ipercromica (anemia megaloblastica) nelle infestazioni croniche che durano anni. Quest’ultima sintomatologia avviene soprattutto nei casi asintomatici che di norma determinano la determinazione del Diphyllobotrium dopo parecchio tempo dall’infestazione. Infatti l’anemia è determinata dalla rivalità tra l’ospite ed il parassita nell’assorbimento della vitamina B12 di origine alimentare. Questo cestode pseudofillideo può generare anche una sorta di azione tossica a seguito della produzione di suoi cataboliti.

La diagnosi viene effettuata attraverso specifico esame coprologico nel quale vengono cercate le uova e le proglottidi (tipici segmenti dei cestodi).

Per fortuna la terapia contro questi parassiti non è invasiva (cioè non si interviene chirurgicamente) in quanto vengono effettuati specifici trattamenti farmacologici a base di antielmintici quale soprattutto il niclosamide 0,5 g (uso orale: negli adulti 4 compresse, quindi 2 g, in dose singola).

In Italia i principali casi si sono verificati nei pressi dei grandi laghi del nord (lago Maggiore, d’Iseo e di Como) dove si ipotizza che questo parassita sia endemico.

Paradossalmente grazie all’effetto del crescente inquinamento idrico di questi corpi idrici si sta determinando una riduzione dei casi di botriocefalosi in quanto si ha la progressiva scomparsa dei piccoli crostacei e di alcune specie ittiche entrambi molto sensibili alla contaminazione chimica.

Anche l’Opistorchiasi, zoonosi emergente causata dall’ingestione di larve di trematodi del genere Opisthorchis (O. felineus e O. viverrini), è considerata una tipica parassitosi derivante dal consumo di pesce crudo d’acqua dolce (soprattutto ciprinidi come la tinca e la carpa).

Il suo ciclo è leggermente differente rispetto a quello dei parassiti sopra descritti in quanto le uova (espulse dall’ospite definitivo) vengono ingerite da lumache (1° ospite intermedio, molluschi del genere Bithynia e Bulinus) dove successivamente maturano sino a cercarie (forme infestanti) che rilasciate in acqua penetrano nei tessuti dei pesci ciprinidi (2° ospite intermedio) per incistarsi in metacercaria. Quando questi pesci infestati vengono mangiati da specifici predatori approdano all’ospite definitivo (alcuni roditori, gatti e cani selvatici, ecc.).

Generalmente questo parassita, nell’ospite definitivo, si localizza nelle vie (dotti) biliari dove, in poche settimane evolve nella forma adulta, e può rimanervi per anni senza causare specifici sintomi (sintomatologia aspecifica). Altre volte determina dolori addominali (coliche biliari), difficoltà digestive, febbre, ittero ostruttivo, colecistite, colelitiasi, mialgia, cefalea, stanchezza, perdita di peso, ecc. Le forme croniche possono causare l’infiammazione permanente dell’epitelio delle vie biliari che può essere concausa di iperplasia biliare e di colangiocarcinoma.

Anche in questo caso la diagnosi si effettua attraverso esame copro-parassitologico (si ricercano le uova oppure porzioni del DNA del parassita), o attraverso tecniche immunologiche dopo alcuni segnali che emergono da primi accertamenti clinici (ipertransaminasemia, ipereosinofilia, ecc.).

La terapia è di tipo farmacologico (albendazolo, ecc.) però anche se è molto efficace può peggiorare la sintomatologia a seguito della morte dei parassiti che possono aggravare l’ostruzione e quindi determinare l’ittero.

In Italia si verificano casi sporadici, ma non rari (es. per pesce crudo, soprattutto carpaccio e marinatura di tinca, pescate nel lago di Bolsena, di Bracciano, di Vico, Trasimeno). L’Opistorchiasi felineus risulta endemica in Bielorussia, in Russia e in Ucraina, con una prevalenza stimata tra il 5% ed il 40%. Casi sporadici sono stati segnalati in Germania, Grecia, Polonia e nei Paesi Baltici.

Il consumatore e il personale alimentarista quali azioni preventive possono prendere per evitare le malattie da consumo di pesce crudo?

Al fine di evitare le zoonosi descritte si possono attuare diverse azioni preventive. Sicuramente la più efficace è rappresentata dalle alte temperature (cottura) applicate ai differenti prodotti ittici. Le temperature superiori ai 60°C per almeno un minuto sino al cuore del prodotto, come suggerisce l’EFSA (European Food Safety Authority: Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, istituita nel 2002), delineano lo spartiacque tra la possibilità di infestarsi e non.

Ovviamente incrementando questa temperatura e/o i tempi di cottura si avranno maggiori garanzie di devitalizzazione delle larve dei parassiti sopra delineati. Tali incrementi sono necessari nel caso di pesci interi, o di porzioni di questi (es. tranci), che si presentano con spessori di 2-3 cm infatti in questo caso i 60°C devono essere applicati per almeno 10 minuti al cuore del prodotto.

Appare chiaro che questa soluzione non è sicuramente gradita agli amanti del pesce crudo quindi trovo doveroso passare in rassegna le altre possibili metodiche culinarie che ci possono permettere di mangiare in sicurezza il pesce crudo. Parecchi studi hanno dimostrato che la marinatura effettuata attraverso metodi tradizionali non rappresenta un metodo sicuro per la bonifica del pesce infestato. Infatti, le diverse larve di nematodi, cestodi, trematodi, ecc., non vengono devitalizzate dagli acidi organici presenti nel succo di limone (acido citrico) e nell’aceto (acido acetico) in quanto non si raggiungono livelli di acidità tali da avere sostanziali effetti positivi. Per lo stesso motivo sono inefficaci anche la tecnica del carpaccio e della tartara.

Quindi in queste preparazioni risulta necessario un preliminare e adeguato abbattimento termico a basse temperature.

La salagione a secco può considerarsi un trattamento efficace contro le larve solo se si raggiungono elevate concentrazioni di sale (circa 8-10% uniforme in tutte le parti del prodotto ittico) per lunghi periodi. Anche in questo caso vale la regola della pezzatura: maggiore è lo spessore del pesce, o dei suoi filetti, più lunga dovrà essere la salagione (infatti può variare dalle 6 settimane nei filetti di alici sino a parecchi mesi in pesci di pezzatura maggiore).

Per quanto concerne l’affumicatura va subito detto che quella a caldo (intorno ai 70-80°C per circa 3-8 ore), se ben effettuata, riesce a determinare la morte delle larve, efficacia che non si raggiunge con l’affumicatura a freddo in quanto dal punto di vista igienico-sanitario risulta essere molto più blanda. Quindi anche in questo secondo caso risulta necessario il preventivo l’abbattimento termico.

In merito al sushi e al sashimi, tecniche culinarie che di norma non comportano trattamenti chimico-fisici (come la salagione, la salatura, l’immersione in acidi organici, ecc.), è palese la necessità del trattamento di abbattimento termico.

Insomma, ogni qual volta decidiamo di cimentarsi in ambito domestico in siffatte arti gastronomiche dobbiamo sempre effettuare la congelazione dei prodotti ittici e quando compriamo in gastronomia o quando siamo al ristorante, di fronte a queste pietanze, dobbiamo avere, da chi ce le vende e/o somministra, la garanzia che siano state preventivamente applicate le adeguate procedure di abbattimento termico.

Ma quali sono queste adeguate procedure? Se ci riferiamo alle attività agro-alimentari (soprattutto alla ristorazione) si deve fare riferimento al Regolamento (CE) 853/04 (Allegato III, Sezione VIII, Capitolo VII) il quale, per i prodotti della pesca che vanno consumati crudi o praticamente crudi, impone un trattamento ad una temperatura non superiore ai -20°C in ogni parte della massa per almeno 24 ore. Quindi tutti gli OSA (Operatori del Settore Alimentare) di ristoranti, alberghi, sushi-bar, ecc. nei quali vengono venduti e/o somministrati prodotti ittici crudi o praticamente tali (es. pesci sottoposti ad affumicatura a freddo, a marinatura, a blanda salatura) devono attenersi a quanto sopra indicato salvo l’applicazione di severe sanzioni amministrative pecuniarie sino ad arrivare a sanzioni penali.

Gli OSA per ottenere queste temperature devono possedere l’abbattitore termico (strumento in grado di abbassare rapidamente – 60/90 minuti, a seconda della pezzatura – la temperatura degli alimenti sino al cuore di questi) e adeguate celle freezer per lo stoccaggio (di almeno 24 ore) a -20°C.
Qualora si decidesse di diminuire il tempo di stoccaggio a basse temperature bisognerà aumentare la temperatura di abbattimento (es. -35°C per almeno 15 ore come indicato nel Regolamento (UE) 1276/2011 e dalla FDA – Food and Drug Administration – Ente per il controllo di alimenti e farmaci negli USA).

Invece il CDC (Centers for Disease Control and Prevention – Centri per la Prevenzione e Controllo delle Malattie – Organismo di controllo della sanità pubblica degli Stati Uniti d’America) raccomanda la cottura dei prodotti ittici ad almeno 63 °C oppure il congelamento ad almeno -20 °C per una settimana, o ad almeno -35 °C fino alla solidificazione con immagazzinamento a -35 °C per 15 ore o a -20 °C per 24 ore.

Ad ogni modo quando si è al ristorante e si vuole consumare pesce crudo o preparato con tecniche che non offrono garanzie sanitarie risulta utile quanto segue:

  1. A) accertarsi che il pesce crudo o poco cotto che si vuole ordinare sia stato acquistato già eviscerato (come indicato nella Circolare Ministeriale n. 10 dell’11.03.1992) e che abbia subito un adeguato trattamento termico come imposto dalla legge;
  2. B) avere conferma del fatto che il prodotto della pesca che ha subito “bonifica preventiva”, una volta scongelato, non sia statò più sottoposto a congelamento/surgelazione;
  3. C) abituarsi ad eseguire un attento esame “ad occhio nudo” del prodotto ittico che si sta per consumare in quanto le larve dei parassiti spesso sono riscontrabili attraverso un attento esame visivo;
    D) masticare bene e in maniera prolungata ogni “boccone” di pesce crudo al fine di avere maggiori possibilità di sopprimere le eventuali larve presenti e non visibili;
  4. E) evitare il consumo di pesce crudo nei ristoranti cinesi “mascherati” da giapponesi nei quali si denotano specifici particolari di allarme (come la scarsa igiene del personale, locali non adeguatamente puliti, scarsa applicazione delle corrette prassi igieniche, ecc.);
  5. F) preferibilmente consumare le specie ittiche a basso rischio di zoonosi quindi evitare lo sgombro, le sardine, le alici marinate, il tonno, ecc.
  6. G) ricordarsi che l’aceto, il succo di limone ed altri comuni condimenti non hanno alcun effetto sui parassiti eventualmente presenti.

Nel caso invece di consumo domestico del pesce crudo, cioè quando lo si acquista fresco (quindi non surgelato) e poi lo si prepara in casa (squamazione, eviscerazione, filettatura, ecc.), non avendo ovviamente l’abbattitore (per altro attrezzatura abbastanza costosa), per evitare zoonosi parassitarie si deve fare riferimento ad un’altra norma e precisamente al D.M. della Salute del 17 luglio 2013 il quale ha come oggetto “Informazioni obbligatorie a tutela del consumatore di pesce e cefalopodi freschi e di prodotti di acqua dolce…”. Questa norma (composta di soli tre articoli), sancisce le indicazioni sulle informazioni obbligatorie che i punti vendita di prodotti ittici (pescherie, ecc.) devono rendere disponibili ai consumatori (attraverso un cartello ben visibile) al fine di prevenire i rischi collegati al consumo di prodotti ittici poco cotti o crudi.

Le indicazioni che devono essere riportate nel cartello sono: “In caso di consumo crudo, marinato o non completamente cotto il prodotto, deve essere preventivamente congelato per almeno 96 ore (cioè per 4 giorni) a -18°C in congelatore domestico contrassegnato con tre o più stelle”.

Queste informazioni devono essere riportate in modo esplicitamente leggibile, non celate o oscurate, né limitate o separate da altre indicazioni scritte o grafiche o da altri elementi in grado di creare confusione.

In poche parole questo Decreto Ministeriale impone ai rivenditori dei prodotti ittici di informare correttamente gli avventori su come comportarsi se si vuole acquistare pesce per poi mangiarlo crudo o in seguito a dei blandi trattamenti (marinatura, tartara, ecc.) e al contempo da precise indicazioni ai consumatori e non agli OSA di ristoranti, alberghi, trattorie, gastronomie, sushi bar, ecc. i quali invece devono adempiere al Regolamento precedentemente citato.

Ovviamente, in ambito domestico, se si vuole evitare la procedura imposta dal D.M. del 17.07.2013, si consiglia di acquistare prodotti ittici non freschi bensì surgelati. Se invece si vuole applicare la congelazione nella propria abitazione bisogna accertarsi di non possedere un congelatore (o vano del frigorifero con funzione di congelatore) contraddistinto con una o due stelle in quanto queste apparecchiature raggiungono rispettivamente una temperatura di -6°C e di -12°C, entrambe non sufficienti a devitalizzare le larve parassitarie.

Va precisato che l’uccisione delle larve con le basse temperature non esclude che in alcuni soggetti particolarmente sensibili si possano verificare sintomatologie allergiche dovute alla persistenza nel pesce degli allergeni (parti del corpo delle larve o del parassita adulto) e appare superfluo il consiglio di evitare di mangiare pesce crudo in gravidanza.

Insomma, quando si parla di salute, non c’è detto più ingannevole di “sano come un pesce” in quanto questo dire comune lascia immaginare che i pesci siano tutti sani, cioè che non soffrano di malattie. In realtà sono come tutti gli altri animali e quindi come tali possono incorrere a tante patologie causate da batteri, virus, miceti e da parassiti. Perciò se i pesci vengono consumati crudi, poco cotti o dopo blandi trattamenti culinari possono trasmettere all’uomo non poche zoonosi.

E il pesce d’allevamento è sicuro?

Spesso mi viene chiesto se anche il pesce d’allevamento può essere parassitato dall’Anisakis, in realtà ciò è sicuramente molto più difficile rispetto al pesce pescato però si potrebbe verificare in quelle specie allevate in mare (specialmente nei Salmoni, nella Spigola e nella Ricciola). Ovviamente ciò non può accadere se le vasche d’allevamento sono galleggianti o a terra e se i pesci vengono nutriti esclusivamente con mangimi. A dimostrazione di quest’assenza di rischio vi sono le indicazioni, riportate nel Reg. (UE) 1276/2011 (di seguito riprodotto), nelle quali si precisa che gli OSA non sono tenuti a praticare il trattamento di congelazione preventiva qualora i prodotti ittici marinati, salati o destinati ad essere consumati crudi provengano da piscicoltura e siano nutriti esclusivamente attraverso una dieta priva di parassiti vivi.

Appare evidente che gli OSA per non adempiere alla bonifica preventiva attraverso l’abbattimento termico devono preventivamente ottenere dai loro fornitori la completa documentazione atta a dimostrare quanto sopra scritto.

Il Menù dei ristoranti quali indicazioni deve riportare?

Altro quesito molto frequente è “nel menù l’abbattimento termico preventivo deve essere indicato?”. Spesso i ristoratori che servono pesci crudi o preparati con tecniche che non preservano dalle zoonosi ittiche (marinatura, ecc.) sono restii a inserire nei loro menù l’indicazione dell’abbattimento termico (es. con la dicitura “nei pesci è stato effettuato un trattamento di bonifica preventiva attraverso abbattitore termico”) in quanto pensano che molti clienti possano ritenere tale processo la causa di una perdita di qualità organolettica (odore, colore, consistenza e soprattutto del sapore) e non come una forma di garanzia igienico-sanitaria.

Tale comportamento potrebbe configurarsi come una non ottemperanza dell’indicazione di somministrazione di prodotti congelati/surgelati (che per legge nel menù vanno ben contraddistinti quindi spesso indicati con un asterisco, es. sushi*), oltre a ciò va sottolineato che così facendo non si effettua una corretta informazione e sensibilizzazione della clientela che di conseguenza continuerà a credere che il pesce crudo, o poco cotto, sia più saporito di quello abbattuto e soprattutto che non porti con sé dei potenziali rischi e seguiterà a “cullarsi” nell’utopia di essere sempre sicuri!

Ovviamente tali comportamenti minano il sistema preventivo in quanto creano una falsa percezione di sicurezza alimentare e soprattutto potrebbero rappresentare una sorta di “cortocircuito” dell’apparato cautelativo però, per il pesce fresco crudo abbattuto, questo comportamento pare sia legale. Infatti, l’art. 68, punto 4, lettera a, del Regolamento (UE) 404/2011prevede che il termine “scongelato” non deve configurare sui prodotti della pesca e dell’acquacoltura precedentemente congelati per ragioni di sicurezza sanitaria conformemente all’Allegato III, Sezione VIII, del Regolamento (CE) 853/2004. Poiché il trattamento termico in questione è espressamente richiesto dalla legge e non si configura come atto teso ad ingannare il consumatore, ma semplicemente a tutelarne la salute, è facoltà del ristoratore di scegliere se riportare o meno tale processo nel menù. Ad ogni modo su questo si dovrà riportare la dicitura “Prodotto ittico conforme alle prescrizioni del Reg. (CE) 853/2004, Allegato III, Sezione VIII, Capitolo 3, lettera d, punto 3” come indicato nella Nota DGSAN 0004379-P del 17.02.2011del Ministero della Salute. Insomma non vanno mai anteposte le questioni commerciali alla corretta comunicazione del rischio.

In parecchi, me compreso, ritengono opportuno assicurare che i prodotti ittici che hanno subito l’abbattimento termico preventivo effettuato correttamente (rispetto dei tempi, delle temperature attraverso le adeguate tecnologie) non subiscono un calo qualitativo delle caratteristiche organolettiche.
Al fine di dimostrare tale affermazione, circa un anno fa, mi sono preso la briga di eseguire una semplice prova grazie alla complicità di un mio cliente ristoratore che nel suo menù offriva parecchie pietanze realizzate con l’uso di prodotti ittici freschi, crudi ed ovviamente abbattuti.

Dopo aver selezionato degli assaggiatori che venivano ritenuti esperti in merito alle qualità organolettiche del pesce crudo (ex pescatori, titolari di pescherie, cuochi, gastronomi, amanti della buona cucina, ecc.) a questi gli sono state somministrate cinque pietanze in doppio dicendo loro che di ogni coppia di vivanda ve n’era una fatta con pesce fresco abbattuto (-20°C per 24 ore) ed un’altra con lo stesso tipo di pesce fresco ma non congelato. Ogni doppia portata era accompagnata da una scheda da compilare (es. alici marinate, tartare di Ricciola) dove andavano compilate alcune voci sulle caratteristiche organolettiche e andava indicato se il prodotto era stato, secondo loro, congelato.
Tutti i tester hanno assaggiato con attenzione ogni portata e successivamente hanno compilato la specifica scheda dando le proprie opinioni. Ovviamente ogni tester ha individuato, per ogni portata, una pietanza ottenuta con l’uso di solo pesce fresco ed una preparata con pesce fresco abbattuto. Peccato che tutte le portate erano state preparate facendo uso esclusivamente di prodotti ittici freschi regolarmente abbattuti!

Questa è la dimostrazione (per quanto semplice e puntuale) che se il pesce è realmente fresco, se viene abbattuto correttamente e se preparato con scrupolo secondo l’arte culinaria risulta effettivamente molto difficile distinguere il prodotto ittico non congelato da quello abbattuto.

Esistono delle carenze normative?

Altra annosa questione della prevenzione delle zoonosi da consumo di pesce crudo è rappresentata dall’assenza nella nutrita normativa di settore di alcune importanti indicazioni quali “il tempo massimo entro il quale si dovrebbe effettuare l’abbattimento termico dei prodotti ittici freschi”. Tale carenza implica silenziosamente che si possono congelare le materie prime (prodotti ittici) prima delle lavorazioni oppure anche i prodotti finiti (cioè le pietanze da somministrare).

Nella normativa non è indicato neanche “il tempo massimo di conservazione a +4°C dopo lo scongelamento prima del consumo” lasciando intendere che tale periodo dipenda dall’analisi dei fattori organolettici (variazioni di consistenza, di colore, di odore, ecc.).

In merito al mantenimento della catena del freddo va ricordato che questa è un fattore imprescindibile al fine di evitare la proliferazione batterica e la formazione dell’istamina (pericolosa sostanza in grado di intossicare).

In conclusione il pesce crudo è pericoloso?

Concludendo si può serenamente affermare che contro il pesce crudo non bisogna avere nessuna presa di posizione ideologica e neanche una sorta di sprezzo o sfida verso il pericolo, ma semplicemente la consapevolezza dei potenziali rischi e considerare l’abbattimento termico come un sicuro investimento verso la salute.

Non va mai dimenticato che il sistema preventivo può inciampare sul comportamento di alcuni operatori “furbetti” e che l’informazione e la sensibilizzazione degli addetti del settore risulta, assieme ai controlli sanitari, l’arma vincente per la corretta gestione del problema zoonosi da pesce crudo.

Con il presente lavoro spero di essere stato d’aiuto ai tanti consumatori sempre più consapevoli ai quali auguro di continuare a mangiare pasti a base di pesce crudo o poco cotto… ovviamente sempre con le dovute precauzioni!

© Produzione riservata

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Dr. Luciano O. Atzori
Biologo – Esperto in Sicurezza degli Alimenti e in Tutela della Salute
Divulgatore Scientifico – Consulente agroalimentare
Co-founder ISQAlimenti.it