Quando dalla storia si può prendere spunto per la scienza: il rischio MOCA

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Chi ricorda il Comandante Sir John Franklin (1845) che all’età di 59 anni partì dall’Inghilterra per una spedizione artica, con la quale si proponeva di attraversare l’ultimo tratto  del passaggio a Nord-Ovest?

La storia racconta che dopo alcune traversie le due imbarcazioni, poste sotto il suo comando, rimasero bloccate dai ghiacciai nello stretto di Vittoria e che tutti i membri della spedizione (lui compreso), non vennero più ritrovati se non solo moltissimi anni dopo, a seguito di varie spedizioni che si susseguirono nel tempo. La scoperta più sorprendente però fu fatta nel 1981, quando un gruppo di scienziati iniziò una serie di analisi scientifiche (su resti e reperti) a seguito delle quali si concluse che molto probabilmente, gli uomini dell’equipaggio erano morti non solo a causa dell’ipotermia per le condizioni ambientali estremamente ostili, un’alimentazione scorretta e per varie malattie, ma che il loro stato di salute poteva essere stato aggravato da una’avvelenamento da piombo (Pb), dovuto ad una saldatura risultata difettosa nelle scatole di cibo date in dotazione alla spedizione. Anche se in seguito, la contaminazione da piombo non venne messa in relazione tanto al cibo in scatola, quanto al sistema di desalinizzazione dell’acqua con cui erano state equipaggiate le due navi, oggi diremmo semplicemente che ciò che all’epoca non era stato garantito sotto l’aspetto della sicurezza igienico-sanitaria era un sistema riconducibile ai MOCA: i Materiali e gli Oggetti destinati a venire a Contatto con gli Alimenti.

Cosa sono i MOCA?

I materiali di confezionamento, più comunemente definiti packaging (primario: quello a diretto contatto con l’alimento, secondario: l’imballaggio di contenitori primari), ma anche tutti i materiali di contatto (materie plastiche, legno,  metalli, vetro, le macchine destinate alla produzione degli alimenti, etc.) più tecnicamente definiti MOCA, rivestono ad oggi non solo un ruolo utile per i consumatori, ma anche come nel caso del packaging, un ruolo fondamentale nella vita dei produttori sempre alla ricerca di imballaggi innovativi, al fine di ottenere sempre più vantaggi come potrebbe essere un prolungamento della shelf-life dei prodotti (maggiore durabilità della vita del prodotto sullo scaffale).

Non è un concetto così scontato però che quando si parla di imballaggi, di macchinari o di utensili  ci si riferisca necessariamente all’utilizzo di materiali sicuri che li compongono. Proprio per questo sono nate nel tempo norme comunitarie che ne assicurano la conformità ai requisiti previsti, oltre all’obbligo da parte delle aziende produttrici di eseguire i controlli, prima della immissione sul mercato di tutto ciò che sarà destinato a contenere e proteggere l’alimento.

L’obiettivo da raggiungere quando si parla di MOCA, sia che entrino direttamente a contatto con gli alimenti, sia che lo facciano in maniera indiretta, è quello di risultare sufficientemente inerti da escludere il trasferimento di sostanze nei prodotti: a) in quantità tali da mettere in pericolo la salute umana, b) da comportare una modifica inaccettabile della composizione degli stessi, c) da causare un deterioramento delle loro caratteristiche organolettiche (alterazione dell’odore, colore e sapore dell’alimento in essi contenuto, o col quale entrano in contatto).

È facile comprendere quindi come all’interno della Sicurezza Alimentare non più solo l’alimento, ma anche l’imballaggio ad esso legato, rispetto al passato, assume una grande importanza potendo rappresentare una sorgente di contaminazione pericolosa dovuta, soprattutto in condizioni di  inappropriato stoccaggio della merce, alla migrazione di sostanze come i metalli pesanti, i materiali plastici e similari.

La rete di allerta comunitaria cosa dice di loro?

Quanto detto viene confermato anche dalle notifiche (comunicazioni) che puntualmente giungono dal RASFF (il Sistema di Allerta Rapido Europeo) che negli ultimi anni fortunatamente ha registrato si, una diminuzione dell’ allerta riferita ai MOCA, passando dalle 311 notifiche del 2011 alle 153 del 2015, ma mettendo in evidenza che la diversa tipologia di materiali utilizzati per il confezionamento, l’imballaggio o la conservazione, possono generare problemi differenti a seconda del materiale utilizzato e/o del Paese di provenienza.  Anche nella relazione del 2015 (come negli anni precedenti) infatti, il RASFF ha confermato che le segnalazioni di materiali a rischio provengono soprattutto dalla Cina e si riferiscono a quei MOCA che hanno la capacità di rilasciare sostanze quali metalli pesanti (principalmente cromo, nichel, cadmio e piombo), ma anche altre sostanze come le ammine aromatiche e la formaldeide (ritenute da tempo potenzialmente tossiche e cancerogene), senza dimenticare però che più in generale quando si parla di MOCA  il potenziale pericolo si riferisce anche alla migrazione di composti quali la classe degli ftalati (DEHA, DBP, DEHP), ITX, i composti perfluorati (PFOS, PFOA), etc. ritenuti da tempo interferenti (IE) o turbatori endocrini per usare una vecchia dicitura, il cui bio-accumulo avviene attraverso la catena alimentare.

Ogni materiale ha un potenziale pericolo

Nonostante la diminuzione delle notifiche di allerta però non bisognerebbe mai abbassare la guardia come cittadini e come consumatori. Non dimentichiamo di essere nell’era delle materie plastiche dove gran parte dei contenitori sono costituiti da materiali di questo tipo, ossia da polimeri con grado di polimerizzazione normalmente elevata (costituiti cioè da molecole molto grandi), che hanno la caratteristica di essere poco o per nulla solubili. Il problema però sussiste nel caso in cui il materiale plastico contenga delle impurità di vario tipo che potrebbero rendere il contenitore in grado di rilasciare sostanze potenzialmente tossiche in presenza di cibi composti, o che contengono sostanze grasse.

Se questo è vero perché, allora si ritiene che l’acqua che non è costituita da sostanze grasse, se conservata nelle bottiglie di plastica possa essere non sicura?

Nel caso specifico il materiale impiegato per l’imbottigliamento dell’acqua è il PET (PoliEtilene Tereftalato) il cui potenziale rischio è quello di rilasciare sostanze come la formaldeide (classificata dallo IARC nel gruppo 1 ossia sicuramente cancerogeno per l’uomo)  o all’acetaldeide (classificata invece come gruppo 2B, possibile cancerogeno), in alcuni casi, responsabili di quel caratteristico “sapore di plastica” che occasionalmente possiamo riscontrare, oppure al rilascio di alcuni tipi di ftalati (utilizzati per rendere la plastica più flessibile) conosciuti ormai da molti anni perché essendo catalogati come interferenti endocrini sono capaci di provocare una serie di alterazioni a livello endocrino, metabolico e riproduttivo. Ciò che potrebbe rende quindi il PET potenzialmente rischioso è che tutte queste sostanze in caso di esposizione a forti fonti di calore e radiazione solare diretta per tempi prolungati, potrebbero migrare dalla bottiglia plastificata nella bevanda. Volendo dare allora qualche raccomandazione si può consigliare di evitare di usare le bottigliette che oggi molti di noi hanno l’abitudine di portare in giro riutilizzandole per più e più volte, inoltre si sottolinea che sarebbe buona norma da parte dei consumatori, non solo non lasciare mai le bottigliette di acqua in macchina immaginando di poter consumare la bevanda temo dopo senza problemi, ma evitando anche una conservazione delle confezioni di acqua e bibite contenute in materiali plastici nei balconi di casa, dove potrebbero subire forti stress termici. Stesso stress termico che verrebbe amplificato nel caso in cui le stesse accortezze indicate per i consumatori non venissero applicate a monte della filiera, sia dalle piccole attività di distribuzione che dalle GDO (Grande Distribuzione Organizzata), i cui stoccaggi in alcuni casi avvengono in  magazzini all’aperto.

E per altri materiali di quotidiano utilizzo, come evitare eventuali pericoli?

Il vetro o la porcellana vetrificata, sono materiali per i quali al di fuori della fragilità è difficile trovare rischi chimici igienico-sanitari a differenza della ceramica. Quest’ultima infatti se decorata con vernici contenenti piombo (Pb) e cadmio (Cd), proibite in Europa e negli USA, ma utilizzati da Paesi con standard di controllo meno rigidi, possono indurre un rischio da metalli pesanti e ciò è stato confermato da casi in cui l’acquisto di stoviglie decorate a mano (piatti, sperlunghe, etc.) di dubbia provenienza o di provenienza da Paesi extraeuropei, da parte dei ristoratori ha fatto riscontrare in alcuni casi negli avventori intossicazioni derivanti appunto da metalli pesanti.

In linea generale comunque è molto importante quando si acquista un alimento rivestito da packaging (primario o secondario), o un contenitore o ancora un materiale che entrerà a contatto con sostanze alimentari, leggere attentamente le indicazioni rilasciate dal produttore, nelle quali vengono specificate le condizioni di conservazione e/o di utilizzo degli stessi  (tenere lontano da fonti di calore, mantenere la temperatura di refrigerazione, non lavare in lavastoviglie, non utilizzare in particolari circostanze, etc), oltre a cercare sugli oggetti acquistati (ove obbligatoria per legge) il famoso simbolo “forchetta e bicchiere” che ci da la certezza che si è in presenza di contenitori che rispettano la normativa vigente.

Non potendo trattare in questa sede tutti i materiali, si propongono dunque solo alcuni spunti di riflessione. Nel caso delle pellicole ad uso domestico, costituite da cloruro di polivinile (PVC), con cui si avvolgono gli alimenti l’accortezza in questo caso è quella di accertarsi con la lettura dell’etichetta che il materiale acquistato sia adatto ad avvolgere anche alimenti contenenti oli o sostanze grasse. Quale il pericolo? Il fatto che non tutte le pellicole siano adatte ad avvolgere tutti i tipi di alimenti. Nelle pellicole costituite da PVC, infatti, potrebbero essere contenute classi di ftalati, che con la materia plastica non creano un legame stabile riuscendo così a muoversi liberamente e fuoriuscire dalla matrice plastica per migrare nell’alimento di natura oleosa o contenente grassi (come possono essere ad esempio i formaggi), rendendo tali alimenti poco salubri. A fronte di ciò infatti si specifica che per evitare possibili migrazioni pericolose, la legislazione europea ha stabilito che gli ftalati possono essere utilizzati unicamente come plastificanti dei materiali e oggetti a uso ripetuto a contatto con alimenti non grassi, oltre che come coadiuvanti tecnologici di lavorazione delle poliolefine, in concentrazioni non superiori allo 0,05%, nel prodotto finito .

Diverso è il caso dell’Alluminio un materiale che possiede moltissimi pregi (leggerezza, basso costo, buona conducibilità elettrica), ma un grosso rischio la sua conclamata neurotossicità. Nel caso dei materiali ed oggetti a contatto con gli alimenti però nonostante la contaminazione chimica che induce neurotossicità non risulti accertata, la prudenza deve essere rapportata comunque a buone pratiche di produzioni ed a buone norme comportamentali. Poiché la potenziale cessione di sostanze nocive può essere influenzata dall’alta temperatura e dal contatto dei contenitori (vaschette monouso), pentole, utilizzo di fogli di alluminio, etc, con alcuni tipi particolari di cibi, i riferimenti normativi ci vengono in soccorso rilasciando una sorta di linee guida tempi/temperature tra alimenti e materiali di alluminio con le quali potersi orientare come di seguito riportato:

  • contatto breve: tempi inferiori alle 24 ore in qualunque condizione di temperatura,
  • contatto prolungato: tempi superiori alle 24 ore a temperatura refrigerata,
  • contatto prolungato: tempi superiori alle 24 ore a temperatura ambiente limitatamente agli alimenti con basso potere estrattivo (caffè, spezie ed erbe, zucchero, cereali, legumi e frutta secca, ortaggi essiccati).

Cosa dire invece della diatriba che si sviluppa spesso attorno all’utilizzo delle pentole antiaderenti, definite anche pentole al Politetrafluoetilene (PTFE) o Teflon? Demonizzate dall’opinione pubblica perché ritenute in passato cancerogene a causa della presenza del perfluoro-ottanico sale ammonico (PFOA) nella fase di produzione, vennero in seguito ritenute sicure a patto che ne venga garantita la loro interezza strutturale. Anche se alcuni studi ritengono che durante la cottura possano essere rilasciate micro particelle di dimensioni estremamente piccole, possono essere considerate sicure sempre che vengano rispettate alcune precauzioni nell’uso. Nel lavaggio dei tegami in Teflon non è necessario sfregare la superficie, ma è sufficiente un lavaggio con acqua leggermente saponata. Non si devono assolutamente utilizzare detergenti abrasivi e nemmeno le pagliette in metallo o spugnette che possano risultare aggressive. Infine il lavaggio in lavastoviglie dei tegami in Teflon è certamente possibile, ma è consigliabile utilizzare un ciclo di lavaggio a una temperatura attorno ai 50°C.

 

Tirando le somme…

Sulla contaminazione chimica da MOCA sotto l’aspetto igienico-sanitario, si potrebbero fare ancora tanti esempi, grazie anche a tutte le notizie che spesso rimbalzano e che ci lasciano un po’ interdetti facendoci riflettere sulle comuni abitudini quotidiane, come quella riguardante alcuni studi effettuati sui topi secondo i quali i packaging che rilasciano una classe di ftalati del tipo DEHP (Di-2-etilesilftalato), potrebbe contribuire a sbilanciare il metabolismo e quindi a far aumentare di peso, oppure come l’informativa su un’indagine effettuata sulla costituzione dei filtri-tessuto delle bustine di tè (comunemente in commercio), per le quali si è accertato (per la prima volta) che in essi vi è anche in questo caso la presenza di ftalati (oltre che del DEHP, del BBP e del DBP già messe al bando dal 2006 dalla comunità europea quali sostanze tossiche per la salute umana) riscontrate anche all’interno della bevanda ottenuta dall’infuso.

Ciò dimostra quanto i pericoli siano reali, ma la cosa che deve risultare fondamentale è che i rischi vengano poi tenuti sotto controllo, grazie ad un lavoro di sinergia tra la legislazione vigente, i controlli ufficiali, l’azione delle autorità preposte al controllo del rischio come l’EFSA (Autorità per la sicurezza Alimentare) per l’Europa e la FDA (Food and Drug Administratio) per gli USA che definiscono i limiti possibili di assunzione giornaliera per un consumatore, oltre all’intervento in alcuni casi dell’opinione pubblica.

In merito a quest’ultimo punto si ricorda quanto è accaduto con il Bisfenolo A (BPA), potente interferente endocrino utilizzato in passato come materiale per la costruzione dei biberon in policarbonato che a seguito di battaglie da parte di associazioni e cittadinanza è stato oramai bandito per tale uso, ma anche utilizzato sotto forma di resina epossidica come rivestimento in contenitori metallici per alimenti (lattine per bibite gasate), che a seguito della forte rivoluzione pubblica ha portato alcune note marche del settore, a sostituirle inserendo anche sulle confezioni una sigla identificativa del tipo “BPA free”.

Concludendo, non ci si può esimere dal ricordare che il settore dei MOCA è un mondo in continua evoluzione, non solo nel miglioramento e nella ricerca di materiali che siano sempre migliori e più salubri per la salute umana, ma anche dal punto di vista ambientale. Molte aziende, infatti, ad oggi investono importanti risorse economiche per il miglioramento del packaging che possa garantire un buon impatto ambientale, dimostrato dalla produzione/utilizzo ove possibile di materiali sempre più spesso riciclabili, che ci auguriamo però risultino nel tempo anche sicuri!

© Produzione riservata

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Dr.ssa Sabina Rubini

Biologa – Esperta in Sicurezza degli Alimenti

Co-Founder www.isqalimenti.it